È il 16 ottobre 1925 quando Vittorio Emanuele III, «per grazia di Dio e per volontà della Nazione», decide di intitolare a Luigi Mangiagalli
, ormai 75 enne e al culmine della carriera, l’istituto ostetrico ginecologico di Milano. Così il medico arrivato in città povero, una sacca di lana a fiori, poca biancheria dentro e cento lire al mese che dovevano bastargli per vitto e alloggio in una stanza a Porta Nuova, lega per sempre la sua figura alla fabbrica dei bambini d’Italia. Che da allora diventa «la Mangiagalli» . Dedicata a un uomo che è stato non solo il pioniere della ginecologia, ma anche sindaco di Milano nel 1922, fondatore e primo rettore dell’Università degli Studi, nonché promotore dell’Istituto dei tumori. Sabato prossimo, 17 ottobre, a 90 anni dal decreto reale, i medici della Mangiagalli, che si considerano tuttora i suoi allievi, festeggiano la ricorrenza con un convegno: per la prima volta – grazie al lavoro meticoloso di Pier Giorgio Crosignani, già professore di Clinica ostetrica e ginecologica della Statale e primario per 15 anni della Mangiagalli – vengono portati alla luce i disegni, i trattati universitari, le cartelle cliniche con le annotazioni autografe e gli scambi epistolari che hanno scandito l’avventura di Mangiagalli. Un materiale prezioso per ricordare un personaggio a cui Milano deve molto, ma anche per ricostruire in modo inedito le sue lezioni di vita. In sala operatoria non ha uguali nel Paese, fuori è un modello di rettitudine. Ma questa è solo la conclusione di una storia che inizia lungo la strada tra Porta Nuova e l’ospedale Policlinico. Il giovane dottore Mangiagalli, nato a Mortara il 16 giugno 1850, la percorre due volte al giorno, andata e ritorno, con l’acqua, la neve o il solleone. Per fortuna dà ripetizioni di latino al figlio di un ciabattino che gli risuola gratis le scarpe. Sono i tempi in cui si opera a mani nude e per cauterizzare i tumori si usano ferri roventi. È allora che Mangiagalli s’innamora delle Odi di Orazio e l’invito del poeta a vivere intensamente ogni attimo (il celeberrimo carpe diem ) diventa un tratto costante delle sue scelte di vita. Mai fatte per avere una carriera sicura, ma per passione. Quando Mangiagalli arriva a Reggio Emilia dopo avere vinto il concorso da assistente all’ospedale, ancora giovanissimo, si dimentica di pagare la vettura che dalla stazione l’ha portato in clinica. All’uscita, quando vede che l’auto è ancora lì ad aspettarlo, non ci pensa due volte e si fa portare a prendere il treno per Milano, rinunciando a un facile successo.
E ancora, a 38 anni con una carriera universitaria avviata tra l’ateneo di Sassari e quello di Catania, ma stufo dei giochi di potere, decide di abbandonare tutto un’altra volta per tornare come primario a Milano. Vince sempre l’amore per la pratica clinica. Si prenderà la rivincita sul mondo universitario nel 1924, fondando l’Università di Milano, «una bandiera che deve riunire intorno a sé tutti quanti sono amanti del prestigio e della grandezza civile della città». La dedizione all’insegnamento lo porta ad essere tra i primi ginecologi che aprono le porte della sala operatoria ai pittori per raffigurare, in tempi in cui non ci sono né macchine fotografiche né ecografie, i «pezzi operatori»; e come sussidio didattico per le lezioni agli studenti usa vignette ostetriche attuali ancora oggi, come nel caso dell’estrazione di un feto in posizione podalica. Agli inizi della professione come all’apice del successo, Mangiagalli non rinuncia a confrontarsi con il resto d’Europa: «Fedele al principio – spiega lui stesso – che la scienza non riconosce frontiere». È capace di motivare i cittadini abbienti a donazioni significative, formando comitati con dame e un segretario scelto soprattutto tra gli alti ufficiali in congedo. Ma in punto di morte arrivano a ringraziarlo donne di modeste condizioni, operate senza ricevere nessun compenso. Il suo motto: «Io credo nei miracoli della scienza». Mangiagalli, senza dubbio tra gli uomini più importanti dell’epoca e destinato a restare nella storia, muore il 3 luglio 1928. Povero.
(Fonte Corriere.it)